Transumanza

La prima volta che sono stato a Santo Stefano di Sessanio è stato in una giornata di sole, di giallo e di nero.

C’era un sole cocente, quel giorno di agosto.
Mi aveva portato lì una strada inattesa, una decisione di due giorni prima. Prendere e andare. Partire senza una mèta. C’era un nome che da anni mi si era fissato nella mente: Rocca Calascio. Un borgo abbandonato, e poi ripopolato da una famiglia di romani. Un nome che per tanti anni andavo semplicemente a controllare ogni tanto sull’atlante del Touring, volume Centro Italia. Un punto, un nome sperso in una macchia senza strade, solo una, spersa, che saliva fino a lì. È stato naturale, per il mio primo viaggio da solo, dirigermi lì: avevo scoperto che esisteva ancora quella famiglia di romani, esisteva il loro rifugio della Rocca. Arrivare, e scoprire quel posto è stato illuminante.

Il secondo giorno, quel giorno di sole di giallo e di nero. Dietro la Rocca, un sentiero si allunga ancora per poco in piano, per poi gettarsi in una picchiata di sassi e sterpi, solleticando il fianco di una collina. Un sentiero della transumanza. Sentirsi gregge senza pastore, pecora senza gregge. Sentirsi bestia nella natura. E giunto ai piedi della collina ti accorgi che puoi  ancora scendere, seguendo una nuova strada: prosegue là, verso quel borgo. Vedi solo una torre, poche case che la abbracciano. Il sentiere scende, striscia grigia tra gialli sterpi. I pochi rimasti gialli, perché quel giallo bruciato dal sole, nell’agosto del 2007, era stato divorato dal nero delle fiamme. Un nero cenere che aveva accompagnato la salita verso Calascio, poco dopo aver lasciato Popoli, e poi salendo, dietro San Pio delle Camere.

Sono giunto a piedi, a Santo Stefano di Sessanio. La libertà. Girare per le vie strette che si inerpicano verso la Torre Medicea, osservare i volti, le case, ascoltare le parole delle persone. Comprare due bottiglie di acqua, perché ero partito senza borraccia, e sapevo che ritornare alla rocca sarebbe stato più duro.

Il lago, e poco discosta, la chiesa. L’altare, sotto gli alberi.
Ricordo la risalita: avevo deciso di cambiare strada, di non fare più il sentiero dell’andata. Presa una strada che portava muta a dei campi coltivati, e giunto alla sua fine, ho cominciato a risalire la collina. Gialla e scabra, sterpi pungenti contro i polpacci. Pochi passi e poi fermarsi, non vedere la mèta. Temere di non farcela, ma godere nell’essere lì, nel posto più bello del mondo.

Sopra di me, un cielo indelebile.