9/11

Come una scabrosità su una liscia superficie su cui passi la mano.
Pera quanto ampie siano le esplorazioni della mano, che ricorrono l’omogeneità affascinante della superficie, alla fine la incontri, quella piccola crepa, quella lieve inflessione.
Grano di un rosario, nodo sul cingolo. Impossibile passare via l’11 settembre come un giorno qualunque.
Ormai il solo nome, Undicisettembre, ha una sua propria semantica tragica, fatta di sirene e polvere, di fiamme ed esplosioni, di aerei e di crolli.
Per la ridondante retorica americana, questa data ce la porteremo avanti ancora per molto tempo. Ma tant’è: non è un giorno che si dimentichi tanto facilmente. E non va dimenticato.

A sei anni di distanza, che cosa è cambiato? Credo poco o nulla, oggettivamente: accanto a chi celebra, c’è chi torna in video con proclami e messaggi di guerra santa. Oggi come allora.
E negli scenari di guerra che ne sono risultati? Anche lì, ancora oggi morte e distruzione.

Terzani, tornato al mondo dopo il suo ritiro himalayano, parlava di una grande occasione di ripensamento. L’occasione di ripensare il ruolo e l’agire dell’occidente nei confronti del resto del mondo. Un momento di crisi da interiorizzare e trasformare in una rinascita.
Sei anni sono passati senza che nulla di tutto questo avvenisse. Credo ancora nel’ttualità di questo messaggio, nella possibilità di ripensare davvero il modo di vivere, di esistere dell’uomo occidentale: non tanto dal punto di vista culturale, quanto da quello geopolitico.
E forse il primo passo, il passo saggo, sarebbe un passo indietro: un disimpegno, una rivalutazione della presenza massiccia ed invasiva nell’oriente. Un ritorno sui propri passi per ritrovare compattezza intorno a valori fondamentali, per ripensare un’economia diverssa da quella della globalizzazione.
Tutto è terribilmente collegato, terribilmente complicato, e nessuna pretesa da parte mia di dire qualcosa di nuovo.
Un semplice invito a ripensare