Riflessioni del ritorno
I greci antichi li chiamavano nostoi.
Nostos in greco significa ritorno, e nostoi erano i racconti epici che raccontavano le avventure e i travagli degli eroi di ritorno dalla guerra di Troia.
Fin dall’antichità dunque il viaggio e il racconto vanno a braccetto.
È innegabile che l’uomo in viaggio sia spinto al pensiero, e il pensiero si organizza diversamente in viaggio da come farebbe se fosse stanziale.
Anche il viaggio più banale porta al pensiero.
Non c’è nulla di eroico nel tragitto che mi porta dal lavoro a casa, ogni sera. (O forse sì; ma questo è tutt’altro argomento.)
Eppure si pensa, si riflette, si segue un filo magari distratto, ma ordinato e tale da avere un inizio ed una fine.
Un ragionamento che si modifica anche in ragione di eventi esterni, di oggetti del mondo che entrano nel campo visivo del pensiero stesso. Florenskij parla di qualcosa di simile a proposito del sogno, ne Le porte regali.
Sarebbe splendido accostare l’esposizione di un pensiero del ritorno alle immagini che si possono osservare lungo il tragitto fisico, sulla strada verso casa.
Oggi è stata la prima giornata di primavera oggettiva.
C’era aria limpida, cielo terso e sereno. Poche nuvole, bianche e compatte. Blu, assoluto, il resto.
E nella campagna intorno, alla base delle colline c’era la netta percezione della superficie terrestre, e del limite che unisce e separa cielo e terra. Colline che si compenetrano all’aria limpida. E quasi percepivi la curvatura della Terra.
Che cosa ci fa in mezzo a tutto questo un uomo?
Questo tuo post mi ricorda Jack London.
è una ricerca in realtà interiore, la ricerca di capire come si può essere americani dentro un territorio che ormai è finito, nel senso, lo si è scoperto tutto, si è andati da est a ovest definitivamente. Nel momento in cui gli ultimi Stati entrano nell’Unione. E quindi si comincia a cercarlo dentro di sé. In fondo è anche poi quello che fa la beat generation, che fa Kerouac in particolare, diciamo, perché poi beat generation è già una cosa più, più larga insomma. Non tutti sono andati on the road come lui. Anzi c’era Ginsberg e Burroughs che non lo capivano tanto, questo suo, questo loro, visto che anche N. Cassidy, questo loro matto andare da est a ovest, era in fondo una ricerca anche mentale, una ricerca dentro un paese, che ormai, scoperto del tutto, non permetteva che di rimbalzare da una parte all’altra, insomma. il viaggio spesso è una conoscenza di un mondo diverso e qualche volta è anche un mondo sconosciuto e che fa paura. No? Questa è un po’ la metafora. Il viaggio negli Inferi è andare dentro un mondo che noi non conosciamo e che ci mette paura, che ci inquieta. Sto pensando, per esempio, a L’asino d’oro. L’asino d’oro, per esempio, è un viaggio non solo nello sconosciuto, ma nella trasformazione. Un uomo si trasforma in asino e nelle vesti dell’asino conosce delle realtà che non aveva mai immaginato. D’altra parte ciò che scrivi mi porta a pensare alla malinconia. La malinconia esiste anche indipendentemente dalla nostalgia, la nostalgia è una forma di malinconia. Si può essere malinconici anche senza essere nostalgici, sono perfettamente d’accordo, si può essere malinconici addirittura di natura. La depressione è una forma di malinconia, per esempio. Ma la nostalgia è senz’altro una forma di malinconia, cioè si presenta come malinconia, si presenta come struggimento. Questo direi, come risposta è questa. Si possono esaminare tutte e due le cose, separatamente l’una dall’altra naturalmente. Amleto è malinconico, senza essere nostalgico.